La casa più celebre in cui abitò Virginia Woolf fu senz’altro Monk’s House. L’ultimo, dolce rifugio della scrittrice inglese nata a Londra il 25 gennaio 1882 e scomparsa a Rodmell il 28 marzo 1941 si lustra tuttora del suo appellativo più immaginifico: “il regno incantato”. Perché lì la penna firma di romanzi da giro del mondo quali La signora Dalloway (1925) e Gita al faro (1927) trascorse il tramonto della sua vita (non solo letteraria) accanto al marito Leonard, passeggiando nel verde e gustando tazze del più autentico tè britannico. Eppure, come tutte le case, anche Monk’s House cela veli d’oscurità. Perchè, proprio lì, Virginia Woolf decise di togliersi la vita, lasciando una lettera indirizzata al marito: “Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi”. Affrontati i perché di questo salto nel buio fra le pagine del libro La mia vita con Virginia scritto dal marito Leonard Woolf – una ricerca socratica di verità o più semplicemente un romanzo coniugale -, il ricordo di Virginia dà ancora vita, in qualche modo, a Monk’s House. Del resto, la sua salma è stata seppellita sotto un olmo del giardino.
Ma Monk’s House ha una lunga storia. I coniugi Woolf acquistarono il cottage il primo giorno del mese di luglio dell’anno 1919: “Siamo proprietari di Monk’s House (questa è quasi la prima volta che scrivo un nome che spero di scrivere molte migliaia di volte prima di aver finito) per sempre”, si legge in Selected Diaries. Dopo una valida ristrutturazione, il villino, nel 1931, risultò dotato di ogni comfort e divenne la dimora fissa della coppia quando, nel 1940, la sua abitazione londinese di Mecklenburgh Square fu danneggiata da un inaspettato bombardamento tedesco. Dal lavoro alla dimensione domestica, il circolo Bloomsbury Group, fondato da Virginia Woolf nel 1905, non fece sentire la sua assenza anche fra le pareti di questa casa. La sorellastra della scrittrice, Vanessa Bell, e il pittore scozzese, Duncan Grant, aiutarono i coniugi Woolf nella scelta del mobilio, realizzando quadri, tappeti e ceramiche – si dice che la piastrella blu firmata Vanessa Bell, a decoro del caminetto posizionato nella camera privata di Virginia Woolf, abbia ispirato la trama di Gita al faro. Le pareti del salotto furono un’opera della scrittrice: lei stessa scelse i colori, un rosso melagrana, un verde acceso, un blu cielo e un giallo ocra, e li mischiò senza paura. Oggi Monk’s House è sotto la cura del National Trust, l’associazione nazionale a difesa di patrimoni culturali e naturali. Si può visitare, ma non vi si può soggiornare (un tempo era possibile). Noi ci siamo permessi – con la fantasia, naturalmente – di riscrivere la sorte estetica e funzionale della casa di Virginia Woolf, immaginando che rinasca sotto l’onda del new british design. Abbiamo affidato il lavoro a una collezione di firme dell’arte e della creatività che fanno del Regno Unito un progetto bandiera.
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